Enneatipo Sei - Paura
La passione della Paura
La Paura era una delle due passioni non ricomprese nella tradizionale lista dei Peccati o Vizi Capitali. Ciò era, probabilmente, dovuto a due diversi motivi.
Da un lato, in un’ottica cristiana medioevale, la paura — o timor di Dio — non era considerata un elemento negativo, poiché essa, attraverso il ricordo del giudizio e del castigo eterno, portava l’uomo ad assoggettarsi alla legge e all’ordine sociale.
Dall’altro lato, bisogna dire che le dinamiche stesse di questa passione non erano ben comprese. La varietà dei comportamenti indotti dalla passione della Paura, infatti, è tale che, a prima vista, sembra esserci poco in comune fra molte persone appartenenti a questo tipo.

Fobici e controfobici: due volti della stessa reazione
Se è piuttosto facile comprendere che sono certamente dominate dalla Paura le persone che anche nel linguaggio comune sono denominate fobiche — quelle, in altre parole, che hanno uno stile di vita dominato dall’insicurezza o da fobie in parte esplicite — non è altrettanto facile vedere in opera a livello motivazionale la Paura in quelle persone chiamate controfobiche, che agiscono con una forte aggressività di tipo strategico.
L’esempio del comportamento del topo che fugge da un gatto permette, però, di comprendere come i due atteggiamenti siano, in realtà, risposte diverse a un’unica esigenza. Il topo normalmente fugge davanti a un gatto, fino a quando ha lo spazio e le forze per poterlo fare; ma, se si trova in una situazione senza via di fuga, si gira e aggredisce la fonte stessa della sua paura.
Questa reazione non è dovuta a una forma di coraggio, ma a un’istintiva difesa che è messa in azione dalla Paura.
Il potere della minaccia
Nel gioco degli scacchi, per esprimere bene questo concetto, si usa il detto:
“La minaccia è molto più forte della sua esecuzione.”
Con tal espressione s’intende rilevare come l’idea di un rischio che ci sovrasta possa essere molto più insopportabile per la nostra psiche che il fatto di affrontare concretamente il pericolo stesso.
Ambivalenza e adattamento
La maggior parte dei Sei, pur essendo prevalentemente fobici o controfobici, mostrano nei loro comportamenti tratti di entrambe le reazioni.
Questa tipica alternanza si estende a quasi ogni comportamento possibile ed è spesso descritta col termine ambivalenza.
Esiste, tuttavia, un’ulteriore possibilità d’espressione della Paura che può essere desunta dal comportamento adottato da molti animali all’interno del loro gruppo.
In molte specie esiste una speciale forma di riconoscimento della superiorità dell’altro, che avviene mediante una serie di atti rituali con i quali si riconosce l’autorità dell’esemplare dominante e, contemporaneamente, si definisce il proprio posto nella scala sociale del gruppo.
In questo modo, ogni membro del gruppo sa, sulla base di questo preciso ordinamento, esattamente qual è il suo ruolo.
La mente iperattiva del Sei
I Paurosi, in genere, sono persone molto cerebrali, nel senso che pensano troppo alle possibili ricadute di ogni loro singolo atto, e combattono la loro insicurezza:
- richiedendo appoggio e sostegno,
- prefigurandosi ogni possibile scenario.
Per questo tipo è decisivo conoscere qual è il comportamento richiesto dall’autorità e, con la loro tipica ambivalenza, sapere in che modo comportarsi di fronte alle richieste che da essa provengono.
Avremo così tre distinti comportamenti, che hanno però in comune l’origine nella necessità di sopire la Paura.
Sentimenti e bisogno di fiducia
A differenza di un Cinque, un Sei non si è separato dai suoi sentimenti e dai desideri, ma non sa se può fidarsi di loro — nel senso che non è mai sicuro delle reazioni degli altri — né se si può permettere di esprimerli liberamente.
Un tema centrale per questo tipo è quello dell’accusa e, proprio per evitare possibili colpe, i Sei sentono la necessità di conoscere ogni singolo dettaglio di una data situazione.
Diffidenza, test e pessimismo lucido
Il Sei non concede facilmente la propria fiducia ed è molto attento nel cogliere i segnali d’ambiguità o di slealtà. Spesso mette alla prova gli altri — in particolare i propri cari — perché l’intima ambivalenza lo porta a dubitare anche di sé stesso e della propria lealtà.
Il Pauroso sente qualsiasi piccola crepa come un’insidia che potrebbe portare al crollo completo, e tende perciò a essere un lucido pessimista, che preferisce prefigurarsi il peggio per essere pronto a qualsiasi evenienza.
Per tale motivo, questo tipo è spesso descritto come
“l’avvocato del diavolo”, facendo riferimento al ruolo assunto nei processi di beatificazione da un membro del clero incaricato di trovare eventuali motivi negativi a carico del futuro possibile santo.
Alcuni Esempi di Persone o di Personaggi Famosi

Il personaggio cinematografico del ragioniere Ugo Fantozzi, interpretato da Paolo Villaggio (anche lui un Sei nella vita reale), incarna, estremizzandole nella sua grottesca comicità, tutte le tendenze della Paura.
Fantozzi, normalmente fobico ed assoggettato in modo totale alla gerarchia, ha talvolta delle reazioni controfobiche che, oltre ad essere caratterialmente precise, raggiungono i vertici della più esilarante paradossalità.
L’episodio della Corazzata Potemkin, in cui Fantozzi è costretto a rinunciare alla visione della partita di calcio della nazionale italiana per sorbirsi l’ennesima replica del film di Ejzenstejn, ci fa vedere in opera la totale soggezione che un Sei ha verso l’ordine e l’autorità. Quando, però, viene chiesto ai presenti il solito giudizio sul film e nessuno trova la voglia di fare il minimo commento, Fantozzi paragona istintivamente la sua reattività interiore a quella degli altri e, sentendosi in quel momento più forte (o forse, più appropriatamente, meno debole), esplode nella sua famosa invettiva che libera catarticamente anche gli impulsi degli altri fino a quel momento repressi.
Sulla stessa linea di condotta di Fantozzi è il personaggio manzoniano di don Abbondio. Stretto nell’opprimente paura delle minacce ricevute dai bravi di don Rodrigo e delle reazioni di Renzo, il buon curato non vede altra soluzione che darsi malato e guadagnare tempo, nell’attesa che qualcosa o qualcuno possa risolvere il problema senza che lui si esponga troppo.
Di fronte alle accuse del Cardinale Borromeo, Don Abbondio cerca in un primo momento di opporre le ragioni che ogni Sei trova sempre per giustificare la sua paura. Il dialogo fra i due personaggi tanto diversi (il Cardinale Borromeo è, infatti, un tipo Uno, agli antipodi nell’Enneagramma rispetto al Sei, proprio per la sua gran capacità d’azione), merita di essere riportato per intero:
“Domando,” riprese il cardinale, “se è vero che abbiate rifiutato di celebrare il matrimonio, quando n’eravate richiesto, nel giorno fissato; e il perché.”
“Veramente… se vossignoria illustrissima sapesse… che intimazioni… che comandi terribili ho avuto di non parlare… Però, quando Lei me lo comanda, dirò, dirò tutto…”.
“Dite; io non vorrei altro che trovarvi senza colpa.”
Allora don Abbondio si mise a raccontare la dolorosa storia; ma tacque il nome principale, e vi sostituì: un gran signore; dando così alla prudenza tutto quel poco che si poteva, in una tale stretta.
“E non avete avuto altro motivo?” domandò il cardinale, quando Don Abbondio ebbe finito.
“Ma forse non mi sono spiegato abbastanza,” rispose questo: “Sotto pena della vita, mi hanno intimato di non far quel matrimonio.”
“E vi par codesta una ragione bastante, per lasciare d’adempiere un dovere preciso?”
La conclusione del cardinale lascia Don Abbondio quasi senza parole, perché egli sente attaccata la norma sovrana della sua vita, ma per nulla convinto delle motivazioni dell’altro.
Il suo pensiero corre, infatti, solo alla prospettiva del pericolo che lo minacciava, e Manzoni con grande acume psicologico lo rappresenta benissimo:
“I pareri di Perpetua!”, pensava stizzosamente don Abbondio, a cui, in mezzo a quei discorsi, ciò che stava più vivamente davanti, era l’immagine di quei bravi, e il pensiero che don Rodrigo era vivo e sano, e, un giorno o l’altro, tornerebbe glorioso e trionfante, e arrabbiato.
E benché quella dignità presente, quell’aspetto e quel linguaggio, lo facessero stare confuso e gl’incutessero un certo timore, era però un timore che non lo soggiogava affatto, né impediva al pensiero di recalcitrare: perché c’era in quel pensiero, che, alla fin delle fini, il cardinale non adoprava né schioppo, né spada, né bravi”.
Questo retro pensiero di Don Abbondio, che misura il peso dei due pericoli (i rimproveri morali del cardinale e le minacce fisiche, infinitamente più sentite, dei bravi), fornisce il supporto motivazionale per l’esplosione controfobica finale, nella quale il dubbio e l’ambivalenza del povero curato emergono appieno:
“Gli è perché le ho viste io quelle facce”, scappò detto a Don Abbondio; “le ho sentite io quelle parole. Vossignoria illustrissima parla bene; ma bisognerebbe essere nei panni d’un povero prete, ed essersi trovato al punto.”
Appena ebbe profferite queste parole, si morse la lingua; s’accorse d’essersi lasciato troppo vincere dalla stizza, e disse tra sé: — ora viene la grandine — alzando dubbiosamente lo sguardo.
Questo rapido passaggio da accusato ad accusatore testimonia della capacità del Sei di farsi quasi avvocato della propria paura e di trasformarla in un potente strumento d’attacco verso gli altri.
Così, nel sottotipo controfobico, domina una visione secondo la quale o si attacca o si è attaccati. Quando questa concezione diventa estrema si possono avere comportamenti tesi alla distruzione del nemico, non importa se reale o immaginario, e all’eliminazione d’ogni devianza.
La Germania del Terzo Reich è un esempio di quest’inclinazione portata fino alla cieca soppressione di ogni forma di individualità personale, che sfocia inevitabilmente in un cupo e sinistro cupio dissolvi.
La tendenza del nazismo a richiedere una forma d’aberrante lealtà e a non discutere nessun tipo d’ordine proveniente dai superiori gerarchici può essere compresa come l’estremizzazione di tendenze presenti nel Sei.
Il padre della psicoanalisi Sigmund Freud, appartenente alla variante controfobica, raccontava che non avrebbe mai abbassato la testa davanti a un nemico, anche se ciò significava mostrarsi ostile verso chi contrastava le sue idee.
Nonostante quest’atteggiamento da guerriero, Freud soffriva di strane fobie che gli rendevano, ad esempio, impossibile viaggiare senza il proprio medico personale, una figura cioè dotata d’autorità, che lo rassicurasse contro eventuali rischi.
Il mondo interiore di un Sei, pessimista, chiuso nel suo labirinto di pensieri e incapace di agire prima di essersi sfinito in lunghissime analisi, è stato descritto da molti fra i più grandi scrittori.
Esempi famosissimi sono i personaggi di Amleto, protagonista dell’omonima tragedia di Shakespeare, e di Raskolnikov, figura centrale del romanzo Delitto e Castigo di Dostoevskij.
L’ambivalenza e il pessimismo di Amleto sono i motori che guidano ogni sua azione. Nella lettera a Ofelia, egli scrive:
Dubita che le stelle siano fuoco,
dubita che il sole si muova,
dubita che la verità sia bugiarda,
ma non dubitare del mio amore.
Quasi un manifesto programmatico della mentalità del Sei, che considera il mondo come un luogo d’incertezze, rischiarato solo dalla lealtà assoluta delle persone amate.
Nel dialogo con Polonio, l’infelice principe esprime con lucida ironia l’inclinazione del Sei a scorgere l’ambiguità anche dietro ciò che è evidente:
Polonio: Onesto, monsignore?
Amleto: Sì, perché rimanere onesto come è fatto il mondo, è dato ad un uomo sopra diecimila.
Polonio: Grande verità, monsignore.
Amleto: E dato che il sole sa far nascere vermi dalla carogna di un cane — voi avete una figlia?
Polonio: Sì, monsignore.
Amleto: Che non passeggi al sole. Concepire è una benedizione, ma attento, amico, a come potrebbe concepire vostra figlia.
Il celeberrimo monologo del terzo atto è un crescendo che, partendo dal dubbio:
Essere o non essere, ecco il problema,
arriva a cogliere l’effetto paralizzante della Paura sulla volontà:
È la coscienza che ci fa vili, quanti noi siamo.
Così la tinta nativa della risoluzione
si stempera sulla fiacca paletta del pensiero,
imprese di gran portata e momento
insabbiano il loro corso e perdono il nome d’azione.
Il personaggio di Raskolnikov, frutto della penna di Dostoevskij — che era anche lui un Sei — mostra, nel succedersi degli eventi del romanzo, sia l’implacabile forza che l’accusa ha nella mente di un pauroso, sia il barcollante cammino verso la liberazione.
Lo stesso percorso, ma a un livello ben più alto, è quello percorso dal pescatore Simone di Giovanni, che dalla colpa di aver tradito tre volte, in una notte di angoscia, il suo Messia per paura, assurse, attraverso la grazia, al rango di primo fra i fedeli della nuova religione di Cristo.
L’episodio del Quo Vadis, tramandato dalla tradizione cristiana, mostra come la Paura sia forse il più tenace sentimento umano, e come l’esempio e la rassicurazione di una figura autorevole siano per un Sei una benedizione capace di condurlo fino ai gradi più elevati della trascendenza.
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